Francisco J. de Lys: Il Labirinto Sepolto Di Babele
In una sera d’inverno, una donna misteriosa, Catherine, appare dal nulla
nella vita di Gabriel Grieg, restauratore e architetto di successo. La
donna ha con sé il giocattolo preferito da Gabriel quando era bambino:
un carillon che ripete il coro degli schiavi del Nabucco,
saltando sempre la stessa nota. Improvvisamente mille ricordi tornano a
galla catapultandolo in un incubo senza fine. Se vuole salvarsi, Grieg
dovrà aiutare Catherine a indagare sulla Chartham, un antico segreto che
minaccia di cambiare le sorti del Vaticano e della Chiesa Cattolica.
Per scoprire cosa nasconda, i due si lanceranno per le vie di
Barcellona, perdendosi negli angoli più bui della città – dal Barrio
Gotico al cimitero del Montjuïc, dalla chiesa di Just i Pastor fino alla
Sagrada Familia – e calandosi nei misteri iniziatici ed esoterici
racchiusi nelle opere del massimo rappresentante dell’architettura
catalana: Antoni Gaudí.
Ragazzi che atroce calvario è stato la lettura di questo romanzo.
Ho combattuto contro il sonno, la noia, gli sbadigli che giungevano puntuali a ogni pagina, alle palpebre calanti e pesanti come i due macigni in cui si sono trasformati i miei testicoli a partire dalla decima pagina o giù di lì.
Inutilmente prolisso e ridondante, con dialoghi al limite del ridicolo. Più che una trama ci si trova per le mani un canovaccio a brandelli rappezzato da chi non sa tenere in mano ago e filo. Così uno decide di continuare la lettura, un po’ perché ogni libro abbandonato è una sconfitta, una macchia nel curriculum del lettore seriale come il sottoscritto e un po’ perché vuoi comunque vedere come andrà a finire questa (non) storia. Poi arrivi all’ultima pagina e sei così ammorbato e stanco che non hai neppure la forza di arrabbiarti. Anche se, poi, spunta un briciolo di soddisfazione per aver compiuto la notevole impresa di essere arrivato fino in fondo.
Ecco, se una cosa si può rimproverare a Dan Brown è di aver contribuito, seppure indirettamente, a far partorire amenità come Il labirinto sepolto di Babele.
Ragazzi che atroce calvario è stato la lettura di questo romanzo.
Ho combattuto contro il sonno, la noia, gli sbadigli che giungevano puntuali a ogni pagina, alle palpebre calanti e pesanti come i due macigni in cui si sono trasformati i miei testicoli a partire dalla decima pagina o giù di lì.
Inutilmente prolisso e ridondante, con dialoghi al limite del ridicolo. Più che una trama ci si trova per le mani un canovaccio a brandelli rappezzato da chi non sa tenere in mano ago e filo. Così uno decide di continuare la lettura, un po’ perché ogni libro abbandonato è una sconfitta, una macchia nel curriculum del lettore seriale come il sottoscritto e un po’ perché vuoi comunque vedere come andrà a finire questa (non) storia. Poi arrivi all’ultima pagina e sei così ammorbato e stanco che non hai neppure la forza di arrabbiarti. Anche se, poi, spunta un briciolo di soddisfazione per aver compiuto la notevole impresa di essere arrivato fino in fondo.
Ecco, se una cosa si può rimproverare a Dan Brown è di aver contribuito, seppure indirettamente, a far partorire amenità come Il labirinto sepolto di Babele.
Commenti
Posta un commento