Coldplay: Ghost Stories.

Qualche tempo fa qualcuno disse: i Coldplay sono uno di quei gruppi che tutti ascoltano, ma fa fico parlarne male.
Io non sono tra questi. Mi sono sempre piaciuti e non ne ho mai fatto mistero. Che, poi, come facciano a piacermi contemporaneamente la cricca di Chris Martin  e i Burning Witch è un segreto che custodisco gelosamente insieme al mio terapeuta.
Dopo Mylo Xyloto ho seguito con curiosità le mosse del gruppo londinese per capire che cosa avrebbero potuto ancora fare dopo un disco che (per me) ha rappresentato una vetta creativa in abito della musica pop di questi tristi anni 10. Dite quel che volete, ma nessuno potrà farmi cambiare idea: fino ad ora i Coldplay sono stati uno dei più grandi gruppi pop e chi li ha visti dal vivo lo potrà confermare facilmente.
Tutto questo prima dell'uscita di Ghost Stories.
Perché ora la musica è (davvero) cambiata.
La faccio breve e vi dico subito che, dopo aver ascoltato il disco per un intero fine settimana, Ghost Stories non mi piace.
Non sono refrattario ai cambiamenti. Apprezzo gli artisti che mettono in gioco se stessi e le loro formule consolidate, rischiando anche di perdere consensi, per sperimentare cose nuove e intraprendere nuovi percorsi. Che è quello che hanno fatto i Coldplay. Di questo bisogna dar loro atto e rendergli merito.
Si è compiuta quella che molti hanno già battezzato la svolta elettronica, chitarra in secondo piano, loop di batteria elettronica e compagnia bella. Tempi leggermente dilatati, atmosfere quasi eteree, ricamate da testi minimali (e un po' banali) che, però, non sono riusciti a fare breccia. Anzi, ho faticato ad arrivare alla fine di un disco monocorde e noioso.
Lo dico?
Ma sì, dai, al massimo beccherò qualche vagonata d'insulti: più di una volta durante l'ascolto di Ghost Stories mi sono addormentato. Allora che ho fatto? L'ho messo in macchina, ma anche lì ho rischiato l'abbiocco. La palpebra si faceva troppo pesante e l'ultima cosa di cui ho bisogno è quella di finire fuori strada e demolire la macchina.
Il trittico iniziale: l'anonima Always In My Head con chitarra alla The Edge, l'orribile Magic di cui non parlerò mai più e l'inutile Ink, potrebbero stroncare un cavallo in pieno trip da metanfetamine. E se, per caso, siete così su di giri da riuscire a oltrepassare questo muro di noia, vi tocca ancora saltare un vero e proprio abisso di uggia prima di poter raggiungere l'agognata fine. Vi sfido ad arrivare alla fine di Oceans, uno stridulo lamento in cui la voce di Martin raggiunge vette d'insostenibilità cosmica. Se ce la fate vi aspetta Sky Full Of Stars che rientra nei binari tipici degli ultimi Coldplay e riesce a scuotere un po', ma che comunque sembra essere un fondo di magazzino rimasto a prendere polvere per qualche anno e poi tirato fuori all'ultimo momento. Però almeno qui si riesce a tenere alta la palpebra. Ma non cantate vittoria perché subito dopo vi beccate una tranvata da un chilotone che vi accoppa, garantito al limone. Questa bomba soporifera ha il nome di (Interlude) Fly On, segnatevelo. Non vado oltre e mi fermo qui, anche perché solo a parlarne mi sta venendo sonno.
I testi.
Che dire, a voler essere generosi sembrano scritti da un tredicenne in overdose di Moccia.
Non riesco a dormire.
Mi manchi.
Io mi muovo ma il mio cuore è fermo e pensa a te.
Siamo vicini ma c'è qualcosa che ci rende distanti.
Basta, non ce la faccio più.
Non è un mistero che questo disco sia figlio della fine della relazione tra Chris Martin e Gwyneth Paltrow. Quindi gioia e allegria non vi abitano, ma neppure l'angoscia e la tristezza; sembra che il sentimento dominante siano la rassegnazione e l'apatia.

Sicuramente qualcuno plaudirà al coraggio dei Coldplay nel presentare un disco intimista, quasi minimale, dopo i barocchismi di Mylo Xyloto. E' vero e l'ho già detto prima, ma questo non basta a rendere Ghost Stories un disco riuscito.
Peccato.

Commenti

  1. il premio per il disco valium dell'anno ce l'ha già in tasca :)

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  2. Eh, mi sa di sì. Vincitore assoluto del Valium Award 2014...

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