Un disco che fece da spartiacque nella carriera di uno dei gruppi di metal estremo più influenti del nuovo millennio. Fu l'inizio di un percorso più progressivo che, poco alla volta, portò gli Opeth lontano dal puro estremismo sonoro. Ciò che venne dopo, non fa parte delle mia storia, perché Damnation è stato il mio ultimo ascolto. Non sono andato oltre.
Post pubblicato lunedì 26 gennaio 2004, alle ore 12:41
OPETH
Damnation (MFN/Audioglobe)
Agli Opeth va dato un gran merito: il death metal progressivo del combo svedese è riuscito ad avvicinare molte persone ad un genere musicale estremo da molti etichettato come puro rumore privo di tecnica, una tesi purtroppo avvalorata dalla miriade di dischi insulsi che ogni anno invade il mercato. Una perizia tecnica e
compositiva sopraffina ed il gusto per la melodia hanno contraddistinto la
carriera artistica dei nostri sin dallo storico esordio Orchid. Da allora è stato un
susseguirsi d’uscite discografiche memorabili, fino a questa spiazzante ultima
release.
Anche se i cinque ci
avevano abituati ad intervalli acustici nelle loro composizioni, fa un certo
effetto ascoltarli in una versione unplugged; ci si aspetta di un momento
all’altro che la chitarra inizi a macinare riffs su riffs, che il growling ci
torturi le orecchie e che gli improvvisi cambi di tempo ci facciano girare la
testa in un maelstrom sonoro senza uguali. Ma non è
così!
Gli Opeth hanno staccato la spina, c’è
poca elettricità in Damnation, non c’è velocità, non c’è rabbia, ma c’è
malinconia, c’è riflessione e c’è poesia. Solo in Closure l’elettricità
residua sembra lanciare il suo grido disperato, un grido brutalmente ed
improvvisamente interrotto quasi che gli Opeth si stessero accorgendo che la
canzone sta deragliando verso territori da non esplorare in questo album,
creando così un’intensa e cupa incompiuta.
L’anima progressivo-acustica
domina incontrastata nelle otto canzoni della dannazione, dove finalmente le
tastiere possono tessere tele sonore su cui i magici accordi delle chitarre
cullano la calda voce di Mikael
Åkerfeldt. Pur
uscendo dai territori abitualmente percorsi nel songwriting il suono è
tipicamente Opeth con la sezione ritmica in
bella evidenza dove il basso di Martin Mendez è spettacolare come al
solito.
In My Time Of
Need e To
Rid The Desease sono due perle, sicuramente ritrovate in uno scrigno
appartenuto al Re Cremisi, incastonate in uno scettro tempestato di diamanti.
Uno scettro che gli Opeth possono portare con fiero orgoglio.
Damnation
è un oscuro viaggio in un
mondo ovattato che forse non piacerà ai fan più intransigenti, ma che, senza
ombra di dubbio rimarrà una pietra miliare nel suo genere. Speriamo che non
rimanga una mosca bianca nella discografia degli Opeth, ma che
il seme gettato nella dannazione attecchisca dando i suoi frutti nei prossimi
lavori del gruppo.
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