Memorabilia #40

Della serie: gruppi che meritavano di più. Molto di più.

Post pubblicato mercoledì 6 dicembre 2006, alle ore 13:02

Josefus
Dead Man
Millenovecentosettanta, cosa aspettarsi da un disco con una copertina simile? Un rock progressivo in odor di zolfo alla Black Widow, o un hard rock mortifero come quello dei Black Sabbath? Niente di tutto questo e lo si può anche capire guardando maliziosamente i caratteri che compongono le parole Dead Man, più adatti all’insegna di un Saloon che ad una lapide cimiteriale. I texani Josefus sono un altro di quei (troppi) sfortunati gruppi che, per un motivo o per l’altro, non sono riusciti a raggiungere la fama e sono stati relegati allo status di culto per pochi intimi. La concorrenza all’epoca era temibile: Led Zeppelin, Deep Purple, Uriah Heep, Black Sabbath, Grand Funk Railroad per citare i nomi più famosi. Logico, perciò, aspettarsi che qualche gruppo anche di classe fosse oscurato da questi mostri sacri. Texas, dunque. Sole e deserto che si rispecchiano in un duro rock-blues velato di psichedelia e farcito d’acido. L’assolata e sconfinata prateria si distende all’orizzonte, quando il riff dell’iniziale Crazy Man apre la danza o farei meglio a dire la cavalcata. Un giro di chitarra d’ampio respiro che rimanda immediatamente a quelle lunghe distese assolate da percorrere in sella ad una moto, guidando senza una meta precisa. Canzoni dirette come una scazzottata. Ed è un vero e proprio gancio in pieno viso la versione di Gimme Shelter che i Josefus propongono; più dura, cattiva e sporca. Non me ne vogliano i fans degli Stones, ma io la preferisco all’originale. La polvere che ricopre il blues di Country Boy è la stessa delle bottiglie di vino buono: da stappare assolutamente senza toglierla. Lo spirito dei Led zeppelin aleggia in Proposal, soprattutto nel break centrale dove la voce di Pete Bailey gioca ad impersonare Robert Plant, mentre in Situation gli echi d’armonica arricchiscono di pathos il riff serrato che sarà imparato a memoria da molti gruppi heavy metal. Poi c’è Dead Man, la canzone che dà il titolo all’album, un lento inno acido di chitarra blues fuzz che altera la percezione. Diciassette minuti che avvolgono l’ascoltatore in un ipnotico mantra sciamanico che alla fine lascia esausti, ma contenti di aver intrapreso un simile viaggio.

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