Paul Dowswell: Il Ragazzo di Berlino.
Germania, 1972. Alex Ostermann vive con la sua famiglia a Berlino Est. I genitori hanno credenziali irreprensibili per il regime, ma lui e sua sorella Geli non sposano interamente la propaganda sovietica e si “ostinano” a vedere del buono nella cultura occidentale. Alex è affascinato dalla musica rock, ascolta di nascosto i Rolling Stones e i Led Zeppelin e ha perfino formato una piccola band con i suoi amici. Geli, sempre vestita di nero e con le sue fotografie di edifici in rovina, mostra inclinazioni “decadenti”. A casa, i genitori fingono di disapprovare le passioni dei figli, mentre l’unica a parlare in modo critico del regime è la nonna. Alla fine, l’eccessivo “individualismo” dei ragazzi, pericoloso per la “causa socialista”, attira l’attenzione della Stasi, che comincia a tenerli d’occhio. Quando le pressioni diventano insopportabili, la famiglia Ostermann riesce a fuggire dalla Ddr, ma a un prezzo che Alex e Geli non sono disposti a pagare.
Nel 1991, a pochi mesi di distanza dalla caduta del muro, andai a Berlino in gita scolastica. Alloggiavamo nella zona est, a pochi passi da Alexanderplatz, perché era più economico rispetto all'ormai ex controparte occidentale. Ricordo ancora nitidamente le tre cose che mi colpirono durante le prime ore di quel soggiorno.
Uno. La differenza del paesaggio tra la Berlino est e ovest. Da un lato una città che consideravamo normale perché così eravamo abituati a vederle: palazzi di diverse dimensioni e fogge, stupendi oppure orribili. Insegne luminose che ti accompagnavano quasi ovunque, gente a spasso, in auto, in bicicletta, il traffico e il rumore. Dall'altra parte un paesaggio che si stendeva a perdita d'occhio composto da enormi palazzi tutti uguali, principalmente tendenti al grigio con qualche variante sul marrone. Pochissimi negozi, nessuna insegna e strade pressoché deserte. La prima sera girovagammo per oltre un'ora prima di trovare un bar fatiscente dove poter consumare una birra sgasata.
Due. Il gran numero di Trabant distrutto o bruciato e lasciate agonizzare lungo le strade. Come se la gente avesse scagliato le proprie frustrazioni contro il simbolo industriale della Germania Democratica, quella scatoletta che era l'unica auto a disposizione del popolo.
Tre. Il muro. All'epoca ancora si snodava, prima di essere in gran parte demolito, come un serpente che divideva e deturpava una città stupenda. Una sensazione stranissima e non piacevole. Sembrava di trovarsi in una prigione a cielo aperto. Nonostante fossimo molto giovani e superficiali quanto richiesto dall'età, vedere il muro, toccarlo e percorrere chilometri con la sua ingombrante presenza non ci lasciò indifferenti. Anche mentre sto scrivendo queste parole a distanza di venticinque anni, quella strana sensazione è ben presente e per questo motivo quando sento i deliri di chi auspica nuove barriere, il mio malessere aumenta.
Leggere il Ragazzo di Berlino ha fatto riaffiorare i ricordi di quella settimana trascorsa letteralmente in due mondi completamente diversi e distanti tra loro pochi metri. Doswell è stato bravo, grazie anche alle testimonianze raccolte per la stesura del romanzo, a ricreare il clima di continua tensione che si respirava in quegli anni. Anni in cui la guerra fredda stava per raggiungere il suo apice e Berlino si trovava proprio nel mezzo.
Un romanzo in cui i sogni e le speranze degli adolescenti devono fare i conti con un indottrinamento forzato e con un futuro che purtroppo per loro è già stato scritto da altri. E nonostante una vita vissuta sotto il controllo constante dalla polizia segreta, in cui anche una parola sbagliata poteva costare il carcere, dalle parole dei protagonisti traspare il dispiacere di essere costretti ad abbandonare quella che comunque è la propria casa per rifugiarsi in un mondo che sebbene sia migliore di quello lasciato alle spalle, potrebbe essere decisamente meglio.
Curiosa la decisione della casa editrice d'inserire il romanzo in una collana destinata ai ragazzi. Lo stile, scorrevole ma abbastanza ricercato e i temi affrontati non sono di facile fruizione per i giovanissimi senza un'adeguata preparazione storica che li aiuterebbe a capire meglio il contesto politico e sociale in cui si muovono i personaggi. Una lettura consigliatissima invece per gli adulti. Una storia non originale, già trattata in numerosi romanzi e film, ma narrata con delicatezza e sensibilità. Mi è piaciuto particolarmente il fatto che l'autore non si sia perso nei soliti luoghi comuni o negli strascichi, purtroppo ancora latenti, di certa propaganda da guerra fredda. Il Ragazzo di Berlino non è una mera contrapposizione tra buoni e cattivi, l'occidente non viene descritto come un Eden e tantomeno la DDR è dipinta come un girone infernale.
E' solo il mondo dell'epoca, fotografato dallo sguardo di un ragazzo a cui piacerebbe poter ascoltare i Led Zeppelin in santa pace e senza dover per questo rischiare la galera.
Nel 1991, a pochi mesi di distanza dalla caduta del muro, andai a Berlino in gita scolastica. Alloggiavamo nella zona est, a pochi passi da Alexanderplatz, perché era più economico rispetto all'ormai ex controparte occidentale. Ricordo ancora nitidamente le tre cose che mi colpirono durante le prime ore di quel soggiorno.
Uno. La differenza del paesaggio tra la Berlino est e ovest. Da un lato una città che consideravamo normale perché così eravamo abituati a vederle: palazzi di diverse dimensioni e fogge, stupendi oppure orribili. Insegne luminose che ti accompagnavano quasi ovunque, gente a spasso, in auto, in bicicletta, il traffico e il rumore. Dall'altra parte un paesaggio che si stendeva a perdita d'occhio composto da enormi palazzi tutti uguali, principalmente tendenti al grigio con qualche variante sul marrone. Pochissimi negozi, nessuna insegna e strade pressoché deserte. La prima sera girovagammo per oltre un'ora prima di trovare un bar fatiscente dove poter consumare una birra sgasata.
Due. Il gran numero di Trabant distrutto o bruciato e lasciate agonizzare lungo le strade. Come se la gente avesse scagliato le proprie frustrazioni contro il simbolo industriale della Germania Democratica, quella scatoletta che era l'unica auto a disposizione del popolo.
Tre. Il muro. All'epoca ancora si snodava, prima di essere in gran parte demolito, come un serpente che divideva e deturpava una città stupenda. Una sensazione stranissima e non piacevole. Sembrava di trovarsi in una prigione a cielo aperto. Nonostante fossimo molto giovani e superficiali quanto richiesto dall'età, vedere il muro, toccarlo e percorrere chilometri con la sua ingombrante presenza non ci lasciò indifferenti. Anche mentre sto scrivendo queste parole a distanza di venticinque anni, quella strana sensazione è ben presente e per questo motivo quando sento i deliri di chi auspica nuove barriere, il mio malessere aumenta.
Leggere il Ragazzo di Berlino ha fatto riaffiorare i ricordi di quella settimana trascorsa letteralmente in due mondi completamente diversi e distanti tra loro pochi metri. Doswell è stato bravo, grazie anche alle testimonianze raccolte per la stesura del romanzo, a ricreare il clima di continua tensione che si respirava in quegli anni. Anni in cui la guerra fredda stava per raggiungere il suo apice e Berlino si trovava proprio nel mezzo.
Un romanzo in cui i sogni e le speranze degli adolescenti devono fare i conti con un indottrinamento forzato e con un futuro che purtroppo per loro è già stato scritto da altri. E nonostante una vita vissuta sotto il controllo constante dalla polizia segreta, in cui anche una parola sbagliata poteva costare il carcere, dalle parole dei protagonisti traspare il dispiacere di essere costretti ad abbandonare quella che comunque è la propria casa per rifugiarsi in un mondo che sebbene sia migliore di quello lasciato alle spalle, potrebbe essere decisamente meglio.
Curiosa la decisione della casa editrice d'inserire il romanzo in una collana destinata ai ragazzi. Lo stile, scorrevole ma abbastanza ricercato e i temi affrontati non sono di facile fruizione per i giovanissimi senza un'adeguata preparazione storica che li aiuterebbe a capire meglio il contesto politico e sociale in cui si muovono i personaggi. Una lettura consigliatissima invece per gli adulti. Una storia non originale, già trattata in numerosi romanzi e film, ma narrata con delicatezza e sensibilità. Mi è piaciuto particolarmente il fatto che l'autore non si sia perso nei soliti luoghi comuni o negli strascichi, purtroppo ancora latenti, di certa propaganda da guerra fredda. Il Ragazzo di Berlino non è una mera contrapposizione tra buoni e cattivi, l'occidente non viene descritto come un Eden e tantomeno la DDR è dipinta come un girone infernale.
E' solo il mondo dell'epoca, fotografato dallo sguardo di un ragazzo a cui piacerebbe poter ascoltare i Led Zeppelin in santa pace e senza dover per questo rischiare la galera.
Commenti
Posta un commento