Alcune considerazioni su Le Venti Giornate di Torino di Giorgio De Maria e alcune strane coincidenze ad esso apparentemente collegate.
Le venti giornate di Torino erano iniziate il 3 luglio di dieci anni prima: la siccità, l’insonnia collettiva, i cittadini che vagavano come fantasmi per le strade del centro storico, le grida misteriose, le statue che sembravano aver preso vita, la misteriosa e orribile catena di omicidi.
Poi, dopo venti giorni, tutto era finito, all’improvviso, come era cominciato. E nessuno aveva più voluto parlare di quella storia.
Oggi, passati appunto dieci anni, un anonimo investigatore dilettante decide di indagare per scrivere un libro su quella vicenda. Perché l’insonnia di massa? E chi erano, e da dove venivano, le mostruose figure di cui troppe testimonianze raccontano? E soprattutto, che nesso c’era tra quanto accadde e la biblioteca che era stata aperta presso la Piccola Casa della Divina Provvidenza? Una biblioteca assai strana, dove non si trovavano i testi pubblicati dagli editori, ma scritti di privati cittadini, che rivelavano i loro pensieri più intimi e profondi, molto spesso terribili, e li mettevano in condivisione con altri cittadini come loro. Non passerà molto prima che il protagonista si renda conto che quella orribile stagione si è conclusa solo in apparenza, e che le forze oscure che avevano scatenato quegli orribili giorni di violenza cieca sono ancora presenti e vigili.
(Sinossi del romanzo, tratta dal sito dell'editore Frassinelli).
E' Sera.
Sto leggendo le ultime pagine de Le Venti Giornate di Torino.
Fuori c'è il vento. Dal buio emergono folate che s'infrangono contro le tapparelle, provocando rumori sordi e scricchiolii.
La temperatura è calata di molti gradi in poche ore. Dicono che sia il preludio all'arrivo del Burian, uno dei venti più gelidi che ci siano. Solitamente non riesce a raggiungerci, nel tragitto perde potenza e si riscalda trasformandosi in Favonio. Il caro, rassicurante Föhn che sa tanto di primavera. Ma in questi tempi strani, il Burian sembra aver preso coraggio e forza. Tra qualche giorno riuscirà ad arrivare fino a noi in pianura. Gli spifferi gelidi che attraversano la finestra sono il suo biglietto da visita.
Di notte, il vento mi fa sempre pensare al Wendigo del racconto omonimo di Algernon Blackwood. Uno dei primi racconti del terrore letti da adolescente e che m'inquietò non poco.
And something swept with a terrific, rushing noise about the little camp and seemed to surround it entirely in a single moment of time. Defago shook the clinging blankets from his body, turned towards the woods behind, and with the same stumbling motion that had brought him--was gone: gone, before anyone could move muscle to prevent him, gone with an amazing, blundering swiftness that left no time to act. The darkness positively swallowed him; and less than a dozen seconds later, above the roar of the swaying trees and the shout of the sudden wind, all three men, watching and listening with stricken hearts, heard a cry that seemed to drop down upon them from a great height of sky and distance.
Le esperienze vissute da ragazzi s'incarnano in profondità, sembrano scomparire andando sempre più a fondo nella memoria, invece eccole spuntare nuovamente a distanza di molti anni. Nelle sere ventose mi capita sovente di ripensare a quel racconto, letto una volta sola e con non poca fatica in lingua originale, oltre trent'anni fa ma che è rimasto sempre acquattato sul fondo dei miei ricordi. In agguato, è proprio il caso di dirlo.
Anche questa sera mi ritorna in mente, il Wendigo. Ma la sensazione che ne ricavo non è quella rassicurante del romanticismo nella sua accezione originale. Il suo ricordo, questa sera m'inquieta.
Interrompo la lettura e mi alzo. Vado alla finestra. In giardino, lo scheletro di un grande acero agita le braccia come se volesse abbracciare qualcuno. Abbracciare, oppure afferrare? Non mi meraviglierei di vedere in questo scenario, l'ombra alata di un caprimulgo psicopompo.
In strada, nonostante non sia molto tardi, c'è nessuno. Anche gli habitué della passeggiata serale con il proprio cane sembrano aver dato forfait.
Abbasso la tapparella, torno a sedermi in poltrona e riprendo la lettura.
Se sono nervoso non è solo per il vento, il racconto di Blackwood o i versi di Lovecraft. E' soprattutto merito, o colpa, del romanzo che sto leggendo. Un grande romanzo, scritto molto bene. Un romanzo inquietante. Come pochi.
Non si tratta di sensazioni indotte da un sapiente utilizzo del marketing. La quarta di copertina che battezza Le Venti Giornate di Torino come l'unico autentico romanzo maledetto italiano, per una volta non è lo strillo sensazionalistico atto ad acchiappare qualche acquirente in più. Non ci sono fascette fosforescenti a richiamare l'attenzione su questa peculiare caratteristica.
Me ne accorgo proseguendo nella lettura. Più mi avvicino alla fine e più mi rendo conto che le parole del curatore non sono un mero strillo ma sembrano quasi essere un avvertimento. La certezza arriva quando termino. Non sono tranquillo. Ho una strana sensazione addosso e il vento che sta aumentando d'intensità non fa che enfatizzarla.
E' un romanzo strano, le Venti Giornate di Torino.
Certo, il fatto che sia ambientato in una città che conosco così bene da avere nitidi in mente i luoghi in cui si muovono i personaggi di De Maria, gioca molto a favore di questo umore.
Ma non si tratta solo di questo.
E non è nemmeno il lato profetico del romanzo, pubblicato nel 1976, quella biblioteca che è un social network ante litteram, a far nascere strane sensazioni.
Quando ho chiuso il libro, non ho ancora letto le note bibliografiche dell'autore. Dopo averlo fatto, l'inquietudine non può far altro che aumentare. E' quello che non c'è scritto che impensierisce l'animo. I punti aperti e le domande a cui mi riesce difficile dare una risposta. Il movente, il motivo di tutto quello che è capitato nel romanzo è un interrogativo che forse non sarà mai soddisfatto. Si tratta di questo, oppure sono le risposte che ingenuamente cerco di dare, a farmi inquietare? Perché sono risposte che non piacciono alla mia parte razionale?
Non può essere altrimenti. E' la commistione di tutti questi elementi che amalgamati creano disagio.
O forse è quello che le parole appena lette hanno risvegliato nella mia testa. Sono i ricordi latenti che riaffiorano, a stringermi la nuca in una morsa gelida?
Sepolta sotto il peso degli anni, quella storia sentita da ragazzino riemerge, improvvisa e prepotente.
Non credo nelle coincidenze, ed è proprio per questo che tutto diventa ancora più sinistro.
Se non avete letto il romanzo, cosa che consiglio caldamente, conviene non proseguire nella lettura, perché, come dicono i giovani d'oggi, quello che leggerete contiene spoiler. Siete avvisati.
Non ricordo esattamente che anno fosse, doveva essere intorno la metà degli anni ottanta.
Nessuno di noi era a conoscenza dell'esistenza delle Venti Giornate di Torino. Eravamo imberbi e la lettura era un piacere ancora agli albori. Il romanzo era uscito quasi dieci anni prima ed era stato praticamente ignorato finendo ingiustamente nell'oblio.
Era estate e come tutte le sere ci radunavamo nel solito posto, seduti sul gradone che delimitava una lunga cancellata a ridosso del marciapiede. Le biciclette erano rigorosamente ammassate in un angolo a formare un indefinibile agglomerato ferroso. Si parlava di tutto, mischiando frivolezze (chiamiamole così) a cose che per noi erano dannatamente serie. Trascorrevamo ore e ore a parlare, inframezzando una bibita o un gelato per lenire l'umidità delle notti estive.
Ci raccontavamo anche delle storie. Tutte rigorosamente vere anche se di vero forse avevano poco o nulla. L'incipit era sempre il medesimo: Oh, sapete. Mi hanno raccontato una cosa. Ma è successa veramente, eh
E noi facevamo finta di crederci anche se a qualcuna di queste ci credevamo davvero. Storie macabre, leggende metropolitane e quelle che ci facevano più paura: le storie del nostro territorio. Quelle tramandate da generazioni e che crescevano di anno in anno, arricchendosi sempre di nuovi e inquietanti particolari.
Fu durante uno di quegli incontri che udii per la prima e, fino a qualche giorno fa, ultima volta la storia della Strana Luna.
La riporto integralmente.
La sapete, voi, quella della Strana Luna? Oh, è successo per davvero, provate a chiedere in giro!
E successo qualche anno fa qui vicicno, a S******** B****.
E' sera e ci sono dei contadini che lavorano nei campi. E' estate e, come sovente capita in questo periodo, lavorano fino a quando il sole non tramonta. Ormai ne rimane solo uno spicchio all'orizzonte; uno di questi contadini alza lo sguardo e improvvisamente smette di fare quello che sta facendo.
«Oh, ma in 'sto periodo c'è luna piena?»
Il suo vicino lo apostrofa in malo modo: «Ma 'tsei fol?» (Ma sei stupido?). «Lo sai bene che non c'è la luna in 'sti giorni».
«E allora quella cos'è?» Indica il cielo, dalla parte opposta al tramonto. Il suo vicino si alza, punta lo sguardo dove gli indica il suo compare e il suo fare sprezzante diventa dubbio.
«Cos'è non lo so. Ma la luna non è di sicuro. E' troppo grossa.»
Poco alla volta, anche gli altri smettono di lavorare e si avvicinano ai due, incuriositi dal loro vociare.
«E' una luce?»
«Sarà un aereo o una di quelle diavolerie che sparano nello spazio.»
Poi la curiosità diventa preoccupazione.
«Ma sono ubriaco o 'sta roba si muove?»
«No, no, si muove eccome».
«Ma viene da 'sta parte?»
«A me non piace. Fiói, fuma che 'nduma?» (Ragazzi, facciamo che andarcene?).
Si mettono in cammino, fortunatamente la cascina non è nella direzione dello strano oggetto.
Cercano di mantenere la calma ma si voltano a più riprese per controllare alle loro spalle.
«E' veloce».
Aumentano il passo. Nella fretta hanno mollato tutti gli attrezzi nel campo.
«Cos'è 'sto rumore?»
Tum! Tum! Tum! Come un tuono.
Ma i tuoni non sembrano sollevare il terreno.
Nessuno si volta perché ha paura di vedere che cosa li sta inseguendo.
Iniziano a correre. La cascina è sempre più vicina.
Anche il rumore.
Tum! Tum! Tum!
Raggiungono il portone. Uno cerca le chiavi in tasca con le mani che tremano, uno batte come un ossesso il grosso battacchio inutilizzato da anni. Un altro si attacca come un forsennato al campanello.
«Chi ch'a l'è?» (Chi è?). Dice una voce gracchiante.
«Dörb! Dörb! Dörb!» (Apri! Apri! Apri!).
Tum! Tum! Tum!
Sempre più vicino.
Finalmente la serratura metallica scatta e i malcapitati riescono entrare e chiudere il portone.
Poi un boato fortissimo quasi li getta a terra.
Terrorizzati, attraversano l'aia e si chiudono in casa dove le mogli, figli e nipoti lanciano occhiate silenziose e impaurite.
Poi torna la calma.
Ma nessuno ha voglia di andare a vedere che cosa sia successo.
La notte non trascorre tranquilla. I sonni sono agitati, qualcuno non riesce a chiudere occhio. I bimbi piagnucolano e fanno fatica ad addormentarsi; quando ci riescono è quasi l'alba.
Poi finalmente il sole, che porta con sé il coraggio.
Gli uomini decidono di andare a vedere che cosa c'è fuori dalla cascina.
Scrollandosi di dosso non pochi tentennamenti, aprono la porta e dopo un primo timoroso sguardo, escono.
La strada, i campi. Tutto è com'è sempre stato.
Qualcuno si gratta la testa, inizia a pensare di essere stato preda di un'allucinazione collettiva.
Succede, ogni tanto.
Decidono di tornare in cascina e di fare colazione. Quello che è successo diventerà una bella storia per i nipoti, durante le lunghe sere d'inverno.
Quando si voltano, la sicumera svanisce e lascia definitivamente il posto alla paura.
Impressa sul portone, l'impronta di due mani gigantesche.
Questa è la storia della Strana Luna, così come l'ho sentita parecchi anni fa.
Se avete letto il romanzo di De Maria, avrete sicuramente notato l'analogia. Come scritto in precedenza, non credo alle coincidenze. Avendo sposato da tempo la teoria di un filo, sottile e invisibile che collega tutti gli eventi, anche i più lontani e improbabili, non posso far finta di nulla e ignorare che esso leghi Le Venti Giornate a questa, che fino a qualche giorno fa, ritenevo essere esclusivamente una leggenda metropolitana nemmeno troppo famosa, tipica delle mie parti.
Come spiega lo scrittore e ricercatore di fatti paurosi Danilo Arona nell'esegesi del fantasma di Melissa: [...] stiamo sempre qua, sul confine. Il confine tra il vero e il falso, tra il creduto vero e l’allucinazione (consensuale). Tra la Realtà e i Fantasmi. Ovvero tutto quel che nutre il gotico contemporaneo. [...] E perché oggi, per l’autentica paura, occorre un ambiguo dato supplementare: la possibile esistenza di una dimensione interfacciata alla nostra in cui poter esprimere una diversa e supplementare “percezione”.
A chiudere degnamente la serata, un piccolo fatto che in altre circostanze non sarebbe stato degno di nota. In queste, invece lo è. Non tranquillo, dopo il mio elucubrare in una colonna sonora ambientale degna del miglior film dell'orrore, decido di andare a dormire. Sempre che ci riesca.
Entro in camera da letto e schiaccio l'interruttore della luce. La lampadina esplode con tanto di fiammata. Scatta anche il salvavita e così rimango completamente al buio. Mai visto, prima d'ora, esplodere una lampadina. Fulminarsi, tac, molte volte. Ma esplodere, ripeto, mai.
Torno sui miei passi, devo alzare l'interruttore del salvavita. Fuori, il vento aumenta ancora.
L'ho già detto che non credo nelle coincidenze?
Giorgio De Maria è nato nel 1924 a Torino. È stato critico teatrale per L’Unità torinese dal 1958 al 1965. Nel 1958 ha fatto parte con Liberovici, Straniero, Calvino, Fortini e Amodei del gruppo Cantacronache per il rinnovamento della canzone italiana. Ha pubblicato, tra l’altro, Le canzoni della cattiva coscienza (1964, in collaborazione con Eco, Straniero, Liberovici e Jona); i romanzi I trasgressionisti (1968), I dorsi dei bufali (1973), La morte segreta di Josif Giugasvili (1976). Le venti giornate di Torino fu pubblicato nel 1977. Dopo di che Giorgio De Maria non ha più pubblicato nulla, ed è morto nel 2009.
Sul sito della Frassinelli, nella pagina dedicata al romanzo è possibile scaricare un pdf contenente articoli, approfondimenti e interviste al curatore del volume, Giovanni Arduino e alla figlia di De Maria.
Su Amazon inveceè disponibile in formato digitale Il Diavolo è nei Dettagli: La Storia de Le Venti Giornate di Torino di Giovanni Arduino, un approfondimento imperdibile per addentrarsi ulteriormente
Questa è la sinossi.
Per chi si è già imbattuto ne Le venti giornate di Torino e per chi deve ancora scoprirlo, ecco un'indagine, personalissima e ricca di spunti, su casi, enigmi, combinazioni e coincidenze che stanno dietro a quello che forse è l'unico vero, autentico romanzo maledetto italiano.
Un'indagine che non può prescindere dall'autore del libro, Giorgio De Maria, apparentemente destinato all'oblio dopo la morte per pazzia e consunzione. Una vita, la sua, fatta di genio e sregolatezza, di anni di concerti per piano interrotti da una bizzarra malattia alle mani, di impieghi dirigenziali prima alla FIAT e poi alla RAI, di amicizie importanti (Umberto Eco, Italo Calvino, Elémire Zolla), di critica teatrale, di scrittura a ritmi serrati, d'insegnamento in istituti di periferia, di anticlericalismo spinto all'eccesso e poi rimpiazzato dal fanatismo religioso, di stati psicotici alimentati dall'alcol e dal ricorso smodato all'Halcion.
Un'indagine che non può non vertere su Torino, non tanto l'abusata capitale italiana della magia ma la città dell'Automobile con la A maiuscola (almeno un tempo), degli anni di piombo, della spiazzante austerità sabauda e del taciuto e del sottinteso, del soffocante cielo bianco gesso, dei larghi viali alberati dalla geometria ingannevolmente rigorosa, teatro del definitivo smarrimento della ragione di un filosofo come Friedrich Nietzsche e degli incubi dello stesso De Maria. Incubi che, ne Le venti giornate, anticipano in modo inquietante, per l'assoluta precisione, la realtà di Internet, dei social network e di tutta un'epoca a venire.
Poi, dopo venti giorni, tutto era finito, all’improvviso, come era cominciato. E nessuno aveva più voluto parlare di quella storia.
Oggi, passati appunto dieci anni, un anonimo investigatore dilettante decide di indagare per scrivere un libro su quella vicenda. Perché l’insonnia di massa? E chi erano, e da dove venivano, le mostruose figure di cui troppe testimonianze raccontano? E soprattutto, che nesso c’era tra quanto accadde e la biblioteca che era stata aperta presso la Piccola Casa della Divina Provvidenza? Una biblioteca assai strana, dove non si trovavano i testi pubblicati dagli editori, ma scritti di privati cittadini, che rivelavano i loro pensieri più intimi e profondi, molto spesso terribili, e li mettevano in condivisione con altri cittadini come loro. Non passerà molto prima che il protagonista si renda conto che quella orribile stagione si è conclusa solo in apparenza, e che le forze oscure che avevano scatenato quegli orribili giorni di violenza cieca sono ancora presenti e vigili.
(Sinossi del romanzo, tratta dal sito dell'editore Frassinelli).
E' Sera.
Sto leggendo le ultime pagine de Le Venti Giornate di Torino.
Fuori c'è il vento. Dal buio emergono folate che s'infrangono contro le tapparelle, provocando rumori sordi e scricchiolii.
La temperatura è calata di molti gradi in poche ore. Dicono che sia il preludio all'arrivo del Burian, uno dei venti più gelidi che ci siano. Solitamente non riesce a raggiungerci, nel tragitto perde potenza e si riscalda trasformandosi in Favonio. Il caro, rassicurante Föhn che sa tanto di primavera. Ma in questi tempi strani, il Burian sembra aver preso coraggio e forza. Tra qualche giorno riuscirà ad arrivare fino a noi in pianura. Gli spifferi gelidi che attraversano la finestra sono il suo biglietto da visita.
Di notte, il vento mi fa sempre pensare al Wendigo del racconto omonimo di Algernon Blackwood. Uno dei primi racconti del terrore letti da adolescente e che m'inquietò non poco.
And something swept with a terrific, rushing noise about the little camp and seemed to surround it entirely in a single moment of time. Defago shook the clinging blankets from his body, turned towards the woods behind, and with the same stumbling motion that had brought him--was gone: gone, before anyone could move muscle to prevent him, gone with an amazing, blundering swiftness that left no time to act. The darkness positively swallowed him; and less than a dozen seconds later, above the roar of the swaying trees and the shout of the sudden wind, all three men, watching and listening with stricken hearts, heard a cry that seemed to drop down upon them from a great height of sky and distance.
Le esperienze vissute da ragazzi s'incarnano in profondità, sembrano scomparire andando sempre più a fondo nella memoria, invece eccole spuntare nuovamente a distanza di molti anni. Nelle sere ventose mi capita sovente di ripensare a quel racconto, letto una volta sola e con non poca fatica in lingua originale, oltre trent'anni fa ma che è rimasto sempre acquattato sul fondo dei miei ricordi. In agguato, è proprio il caso di dirlo.
Anche questa sera mi ritorna in mente, il Wendigo. Ma la sensazione che ne ricavo non è quella rassicurante del romanticismo nella sua accezione originale. Il suo ricordo, questa sera m'inquieta.
Interrompo la lettura e mi alzo. Vado alla finestra. In giardino, lo scheletro di un grande acero agita le braccia come se volesse abbracciare qualcuno. Abbracciare, oppure afferrare? Non mi meraviglierei di vedere in questo scenario, l'ombra alata di un caprimulgo psicopompo.
Io son colui che urla nella notte.
Io son colui che geme nella neve.
Io son colui che mai vide la luce.
Io son colui che ascende dall'abisso.
E il mio cocchio è il cocchio della Morte.
Le mie ali son ali di paura.
Il mio respiro è il soffio del maestrale
E le mie prede sono i freddi morti.
Io son colui che mai vide la luce.
Io son colui che ascende dall'abisso.
E il mio cocchio è il cocchio della Morte.
Le mie ali son ali di paura.
Il mio respiro è il soffio del maestrale
E le mie prede sono i freddi morti.
In strada, nonostante non sia molto tardi, c'è nessuno. Anche gli habitué della passeggiata serale con il proprio cane sembrano aver dato forfait.
Abbasso la tapparella, torno a sedermi in poltrona e riprendo la lettura.
Se sono nervoso non è solo per il vento, il racconto di Blackwood o i versi di Lovecraft. E' soprattutto merito, o colpa, del romanzo che sto leggendo. Un grande romanzo, scritto molto bene. Un romanzo inquietante. Come pochi.
Non si tratta di sensazioni indotte da un sapiente utilizzo del marketing. La quarta di copertina che battezza Le Venti Giornate di Torino come l'unico autentico romanzo maledetto italiano, per una volta non è lo strillo sensazionalistico atto ad acchiappare qualche acquirente in più. Non ci sono fascette fosforescenti a richiamare l'attenzione su questa peculiare caratteristica.
Me ne accorgo proseguendo nella lettura. Più mi avvicino alla fine e più mi rendo conto che le parole del curatore non sono un mero strillo ma sembrano quasi essere un avvertimento. La certezza arriva quando termino. Non sono tranquillo. Ho una strana sensazione addosso e il vento che sta aumentando d'intensità non fa che enfatizzarla.
Monumento al traforo del Frejus. Piazza Statuto. © Città di Torino - www.comune.torino.it |
E' un romanzo strano, le Venti Giornate di Torino.
Certo, il fatto che sia ambientato in una città che conosco così bene da avere nitidi in mente i luoghi in cui si muovono i personaggi di De Maria, gioca molto a favore di questo umore.
Ma non si tratta solo di questo.
E non è nemmeno il lato profetico del romanzo, pubblicato nel 1976, quella biblioteca che è un social network ante litteram, a far nascere strane sensazioni.
Quando ho chiuso il libro, non ho ancora letto le note bibliografiche dell'autore. Dopo averlo fatto, l'inquietudine non può far altro che aumentare. E' quello che non c'è scritto che impensierisce l'animo. I punti aperti e le domande a cui mi riesce difficile dare una risposta. Il movente, il motivo di tutto quello che è capitato nel romanzo è un interrogativo che forse non sarà mai soddisfatto. Si tratta di questo, oppure sono le risposte che ingenuamente cerco di dare, a farmi inquietare? Perché sono risposte che non piacciono alla mia parte razionale?
Non può essere altrimenti. E' la commistione di tutti questi elementi che amalgamati creano disagio.
O forse è quello che le parole appena lette hanno risvegliato nella mia testa. Sono i ricordi latenti che riaffiorano, a stringermi la nuca in una morsa gelida?
Sepolta sotto il peso degli anni, quella storia sentita da ragazzino riemerge, improvvisa e prepotente.
Non credo nelle coincidenze, ed è proprio per questo che tutto diventa ancora più sinistro.
Se non avete letto il romanzo, cosa che consiglio caldamente, conviene non proseguire nella lettura, perché, come dicono i giovani d'oggi, quello che leggerete contiene spoiler. Siete avvisati.
Non ricordo esattamente che anno fosse, doveva essere intorno la metà degli anni ottanta.
Nessuno di noi era a conoscenza dell'esistenza delle Venti Giornate di Torino. Eravamo imberbi e la lettura era un piacere ancora agli albori. Il romanzo era uscito quasi dieci anni prima ed era stato praticamente ignorato finendo ingiustamente nell'oblio.
Era estate e come tutte le sere ci radunavamo nel solito posto, seduti sul gradone che delimitava una lunga cancellata a ridosso del marciapiede. Le biciclette erano rigorosamente ammassate in un angolo a formare un indefinibile agglomerato ferroso. Si parlava di tutto, mischiando frivolezze (chiamiamole così) a cose che per noi erano dannatamente serie. Trascorrevamo ore e ore a parlare, inframezzando una bibita o un gelato per lenire l'umidità delle notti estive.
Ci raccontavamo anche delle storie. Tutte rigorosamente vere anche se di vero forse avevano poco o nulla. L'incipit era sempre il medesimo: Oh, sapete. Mi hanno raccontato una cosa. Ma è successa veramente, eh
E noi facevamo finta di crederci anche se a qualcuna di queste ci credevamo davvero. Storie macabre, leggende metropolitane e quelle che ci facevano più paura: le storie del nostro territorio. Quelle tramandate da generazioni e che crescevano di anno in anno, arricchendosi sempre di nuovi e inquietanti particolari.
Fu durante uno di quegli incontri che udii per la prima e, fino a qualche giorno fa, ultima volta la storia della Strana Luna.
La riporto integralmente.
La sapete, voi, quella della Strana Luna? Oh, è successo per davvero, provate a chiedere in giro!
E successo qualche anno fa qui vicicno, a S******** B****.
E' sera e ci sono dei contadini che lavorano nei campi. E' estate e, come sovente capita in questo periodo, lavorano fino a quando il sole non tramonta. Ormai ne rimane solo uno spicchio all'orizzonte; uno di questi contadini alza lo sguardo e improvvisamente smette di fare quello che sta facendo.
«Oh, ma in 'sto periodo c'è luna piena?»
Il suo vicino lo apostrofa in malo modo: «Ma 'tsei fol?» (Ma sei stupido?). «Lo sai bene che non c'è la luna in 'sti giorni».
«E allora quella cos'è?» Indica il cielo, dalla parte opposta al tramonto. Il suo vicino si alza, punta lo sguardo dove gli indica il suo compare e il suo fare sprezzante diventa dubbio.
«Cos'è non lo so. Ma la luna non è di sicuro. E' troppo grossa.»
Poco alla volta, anche gli altri smettono di lavorare e si avvicinano ai due, incuriositi dal loro vociare.
«E' una luce?»
«Sarà un aereo o una di quelle diavolerie che sparano nello spazio.»
Poi la curiosità diventa preoccupazione.
«Ma sono ubriaco o 'sta roba si muove?»
«No, no, si muove eccome».
«Ma viene da 'sta parte?»
«A me non piace. Fiói, fuma che 'nduma?» (Ragazzi, facciamo che andarcene?).
Si mettono in cammino, fortunatamente la cascina non è nella direzione dello strano oggetto.
Cercano di mantenere la calma ma si voltano a più riprese per controllare alle loro spalle.
«E' veloce».
Aumentano il passo. Nella fretta hanno mollato tutti gli attrezzi nel campo.
«Cos'è 'sto rumore?»
Tum! Tum! Tum! Come un tuono.
Ma i tuoni non sembrano sollevare il terreno.
Nessuno si volta perché ha paura di vedere che cosa li sta inseguendo.
Iniziano a correre. La cascina è sempre più vicina.
Anche il rumore.
Tum! Tum! Tum!
Raggiungono il portone. Uno cerca le chiavi in tasca con le mani che tremano, uno batte come un ossesso il grosso battacchio inutilizzato da anni. Un altro si attacca come un forsennato al campanello.
«Chi ch'a l'è?» (Chi è?). Dice una voce gracchiante.
«Dörb! Dörb! Dörb!» (Apri! Apri! Apri!).
Tum! Tum! Tum!
Sempre più vicino.
Finalmente la serratura metallica scatta e i malcapitati riescono entrare e chiudere il portone.
Poi un boato fortissimo quasi li getta a terra.
Terrorizzati, attraversano l'aia e si chiudono in casa dove le mogli, figli e nipoti lanciano occhiate silenziose e impaurite.
Poi torna la calma.
Ma nessuno ha voglia di andare a vedere che cosa sia successo.
La notte non trascorre tranquilla. I sonni sono agitati, qualcuno non riesce a chiudere occhio. I bimbi piagnucolano e fanno fatica ad addormentarsi; quando ci riescono è quasi l'alba.
Poi finalmente il sole, che porta con sé il coraggio.
Gli uomini decidono di andare a vedere che cosa c'è fuori dalla cascina.
Scrollandosi di dosso non pochi tentennamenti, aprono la porta e dopo un primo timoroso sguardo, escono.
La strada, i campi. Tutto è com'è sempre stato.
Qualcuno si gratta la testa, inizia a pensare di essere stato preda di un'allucinazione collettiva.
Succede, ogni tanto.
Decidono di tornare in cascina e di fare colazione. Quello che è successo diventerà una bella storia per i nipoti, durante le lunghe sere d'inverno.
Quando si voltano, la sicumera svanisce e lascia definitivamente il posto alla paura.
Impressa sul portone, l'impronta di due mani gigantesche.
Questa è la storia della Strana Luna, così come l'ho sentita parecchi anni fa.
Se avete letto il romanzo di De Maria, avrete sicuramente notato l'analogia. Come scritto in precedenza, non credo alle coincidenze. Avendo sposato da tempo la teoria di un filo, sottile e invisibile che collega tutti gli eventi, anche i più lontani e improbabili, non posso far finta di nulla e ignorare che esso leghi Le Venti Giornate a questa, che fino a qualche giorno fa, ritenevo essere esclusivamente una leggenda metropolitana nemmeno troppo famosa, tipica delle mie parti.
Come spiega lo scrittore e ricercatore di fatti paurosi Danilo Arona nell'esegesi del fantasma di Melissa: [...] stiamo sempre qua, sul confine. Il confine tra il vero e il falso, tra il creduto vero e l’allucinazione (consensuale). Tra la Realtà e i Fantasmi. Ovvero tutto quel che nutre il gotico contemporaneo. [...] E perché oggi, per l’autentica paura, occorre un ambiguo dato supplementare: la possibile esistenza di una dimensione interfacciata alla nostra in cui poter esprimere una diversa e supplementare “percezione”.
A chiudere degnamente la serata, un piccolo fatto che in altre circostanze non sarebbe stato degno di nota. In queste, invece lo è. Non tranquillo, dopo il mio elucubrare in una colonna sonora ambientale degna del miglior film dell'orrore, decido di andare a dormire. Sempre che ci riesca.
Entro in camera da letto e schiaccio l'interruttore della luce. La lampadina esplode con tanto di fiammata. Scatta anche il salvavita e così rimango completamente al buio. Mai visto, prima d'ora, esplodere una lampadina. Fulminarsi, tac, molte volte. Ma esplodere, ripeto, mai.
Torno sui miei passi, devo alzare l'interruttore del salvavita. Fuori, il vento aumenta ancora.
L'ho già detto che non credo nelle coincidenze?
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Giorgio De Maria è nato nel 1924 a Torino. È stato critico teatrale per L’Unità torinese dal 1958 al 1965. Nel 1958 ha fatto parte con Liberovici, Straniero, Calvino, Fortini e Amodei del gruppo Cantacronache per il rinnovamento della canzone italiana. Ha pubblicato, tra l’altro, Le canzoni della cattiva coscienza (1964, in collaborazione con Eco, Straniero, Liberovici e Jona); i romanzi I trasgressionisti (1968), I dorsi dei bufali (1973), La morte segreta di Josif Giugasvili (1976). Le venti giornate di Torino fu pubblicato nel 1977. Dopo di che Giorgio De Maria non ha più pubblicato nulla, ed è morto nel 2009.
Sul sito della Frassinelli, nella pagina dedicata al romanzo è possibile scaricare un pdf contenente articoli, approfondimenti e interviste al curatore del volume, Giovanni Arduino e alla figlia di De Maria.
Su Amazon inveceè disponibile in formato digitale Il Diavolo è nei Dettagli: La Storia de Le Venti Giornate di Torino di Giovanni Arduino, un approfondimento imperdibile per addentrarsi ulteriormente
Questa è la sinossi.
Per chi si è già imbattuto ne Le venti giornate di Torino e per chi deve ancora scoprirlo, ecco un'indagine, personalissima e ricca di spunti, su casi, enigmi, combinazioni e coincidenze che stanno dietro a quello che forse è l'unico vero, autentico romanzo maledetto italiano.
Un'indagine che non può prescindere dall'autore del libro, Giorgio De Maria, apparentemente destinato all'oblio dopo la morte per pazzia e consunzione. Una vita, la sua, fatta di genio e sregolatezza, di anni di concerti per piano interrotti da una bizzarra malattia alle mani, di impieghi dirigenziali prima alla FIAT e poi alla RAI, di amicizie importanti (Umberto Eco, Italo Calvino, Elémire Zolla), di critica teatrale, di scrittura a ritmi serrati, d'insegnamento in istituti di periferia, di anticlericalismo spinto all'eccesso e poi rimpiazzato dal fanatismo religioso, di stati psicotici alimentati dall'alcol e dal ricorso smodato all'Halcion.
Un'indagine che non può non vertere su Torino, non tanto l'abusata capitale italiana della magia ma la città dell'Automobile con la A maiuscola (almeno un tempo), degli anni di piombo, della spiazzante austerità sabauda e del taciuto e del sottinteso, del soffocante cielo bianco gesso, dei larghi viali alberati dalla geometria ingannevolmente rigorosa, teatro del definitivo smarrimento della ragione di un filosofo come Friedrich Nietzsche e degli incubi dello stesso De Maria. Incubi che, ne Le venti giornate, anticipano in modo inquietante, per l'assoluta precisione, la realtà di Internet, dei social network e di tutta un'epoca a venire.
Ben fatto!Questo è un modo decisamente fresco e coinvolgente per parlare di narrativa.
RispondiEliminaGrazie Nick, detto da te ha ancora più valore.
EliminaP.S. Leggi il libro che ne vale davvero la pena.
Concordo con Nick. Un post di grande atmosfera.
RispondiEliminaGrazie, Ivano!
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